Finita la Scuola Media, a tredici anni già conclusi, si presentava una seconda scelta: Scuola superiore si o Scuola superiore no. A quell’età non ero certo uno studente modello ma nutrivo già un certo interesse per le materie scientifiche. Il Liceo Scientifico non era comunque alla mia portata ma una Scuola tecnica certamente era considerata più adatta ai miei interessi e poi dopo cinque anni sarei potuto entrare nel mondo del lavoro. Scelsi l’Istituto Industriale ma era a Cosenza e non era semplice vivere in una città da solo, ma sapevo che potevo farcela.

La prima sistemazione fu presso un Convitto gestito da monaci, una sistemazione che non era affatto su misura per me abituato a vivere all’aria aperta e con pochi controlli. Regole scandite da tempi rigidi più per religiosi che per studenti laici.
Ma di questo vi racconterò in un’altra storia. Per adesso volevo parlarvi di come affrontai questo passaggio dalla mia vita in famiglia in un contesto dove era necessario confrontarsi con altri ragazzi provenienti da diversi paesi della Calabria, con interessi diversi e più abituati alla socialità di quanto potevo esserlo io. Fortunatamente la scuola sembrava molto più accogliente e interessante rispetto al Convitto. In generale gli insegnanti erano abituati ad avere contatti con ragazzi alla prima vera esperienza scolastica, stabilendo un buon rapporto con tutti noi. Le materie, trattandosi di scuola tecnica, erano piuttosto complicate ma, passato il primo sbandamento, sono riuscito ad entrare abbastanza bene nel nuovo meccanismo scolastico. Avevo alcune carenze, come italiano, fisica, matematica che richiedevano più tempo allo studio ma almeno avevo la scusa di saltare alcune attività religiose in Convitto. Per questo ogni tanto mi “guadagnavo” qualche frustata dal Rettore, padre Camillo. L’Istitutore non mi aveva in simpatia e quando si sentiva particolarmente ispirato ed accusarmi mi toccava prendermi la santa punizione. Scoprii dopo, casualmente che quel nervo serviva soprattutto per il Rettore stesso che lo usava per autopunirsi di qualcosa da cui pentirsi. Non ho però indagato a fondo sulla storia perché mi sembrava una cosa così assurda da poter solo essere raccontata. Ma purtroppo era tremendamente vera, perché vista con i miei occhi. Un giorno che entrai nel suo studio senza bussare lo trovai che si stava auto flagella do. Per questa scoperta di frustate ne presi un bel po’. Fortunatamente questa situazione non durò a lungo perchè appena ho iniziato a fare amicizia con alcuni compagni di classe mi sono messo alla ricerca di una nuova sistemazione. Infatti dopo le vacanze pasquali lasciai il Convitto per andare presso una famiglia affitta camere. Ai miei genitori dissi che il frate cappuccino non mi voleva più in Convitto perché ero troppo problematico. Insieme a Tommaso, un mio amico di Verzino, che viveva una simile esperienza negativa, in un altro Convitto noto in città per studenti benestanti, ci trasferimmo in questa pensione nel zona di via dei Martiri, sul lungo Crati.

Il 1964 iniziava così in una nuova famiglia. Con un breve passaggio in casa di un suo cognato che affittava posti letto senza fare differenze se questi erano adulti o ragazzi. Quindici giorni da incubo in una stanza con sei letti divisi da una tenda. Praticamente un lazzaretto.
Alla scadenza dei quindici giorni ci troviamo finalmente in una vera casa con una stanza tutta nostra. A me e Tommaso non sembrava vero. Dopo tanto penare finalmente una sistemazione decente. Dopo alcuni giorni però ci accorgemmo che il vitto era piuttosto carente sia per qualità che per quantità. Il proprietario era molto oculato nella spesa, attento al risparmio e poco propenso a concedere oltre lo stretto necessario. L’appartamento era carino ma spartano, due sedie un tavolo per due, due lettini un armadio. Il riscaldamento si accendeva solo per poche ore al giorno e la colazione ridotta al minimo. Il pranzo consisteva in un piatto di pasta al sugo tipo concentrato, come si usava una volta dal gusto acidulo. La cena un brodino vegetale dove galleggiavano pochi chicchi di riso o pastina, un’ala di pollo e una patata bollita. Era di tutto un poco ma almeno non c’erano restrizioni o divieti vari e potevamo disporre anche di libera uscita. Soldi da spendere non ne avevamo ma, specialmente d’inverno, le commesse della Standa ci conoscevano tutte. Finalmente questo primo anno passò senza più intoppi e con i genitori contenti di non aver creato loro ulteriori problemi. Intanto eravamo determinati a non mollare e cercare per l’anno successivo una sistemazione migliore. Volevamo dimostrare a noi stessi e alla nostra famiglia che eravamo cresciuti abbastanza per decidere da soli il nostro futuro da studenti fuori sede.